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LA DEVOZIONE A S. MICHELE DELLA CITTA’ DI VASTO. I MARCHESI D’AVALOS.
Dalla città di Vasto, sin dal Medioevo, comitive di devoti partivano a piedi in pellegrinaggio per recarsi sul Gargano a visitare la grotta dell’Arcangelo Michele. Tale devozione, conservata nel tempo, aumentò notevolmente quando, nel 1656, in seguito ai terremoti e alla peste esplosa in tutto il Regno, i Vastesi, fidando nell’aiuto di S. Michele, secondo la promessa fatta in visione a mons. Puccinelli, Arcivescovo di Manfredonia, murarono solennemente una pietra della grotta – santuario sulla porta delle mura detta di S. Maria. Il morbo cessò e per ringraziare il Santo, a circa300 mda questa, orientata verso il promontorio del Gargano, il 19 marzo del 1657 fu iniziata l’edificazione della chiesa, terminata nel 1675, così come si legge in un’iscrizione latina murata. San Michele fu acclamato patrono della città con conferma pontificia ottenuta nel 1827. La chiesa conserva l’altare maggiore in legno, ornato della statua d’Arcangelo, con doratura ad oro zecchino, lavoro d’artista veneziano.
Nelle pagine di cronaca dei bollettini del Santuario degli anni ’30 – ’50 del trascorso secolo, più volte la “compagnia” di Vasto è citata per la sua devota partecipazione. E ancora oggi, nell’arco dell’anno, ma principal-mente nel mese di maggio, non più, come un tempo, a piedi, ma in pullman o in macchina, giungono numerosi per il loro annuale pellegrinaggio.
Più iscrizioni sono presenti, graffite, sulle pareti della scalinata angioina, di pellegrini di Vasto che hanno voluto “segnare” nel tempo, quasi ex voto, la loro pia visita alla grotta di S. Michele. In particolare piace segnalarne una, non solo per le sue peculiari caratteristiche paleografiche, ma anche perché testimonianza di fede già prima degli avvenimenti del 1656 (v. foto).
Non fu certamente per assecondare questo culto popolare al Santo che anche la nobile famiglia d’Avalos, feudataria di Vasto, manifestò in più occasioni, con ricchi doni, la sua venerazione all’Arcangelo. Nella “Platea” della Basilica del 1678, redatta dal notaio Marrera di Vieste, si legge “ Una catena d’oro di maglie ritorte e rigate di numero trecento sessanta quattro di libbre cinque et once due” donata dal Sig. Marchese del Vasto il 14 luglio 1658, “con patto che non si potesse vendere alienare o impegnare. Valutati docati 800…”. Ancora:“Nella Cappella dove sono le Sagre Reliquie vi stà posto un’altra Lampa d’Argento dell’Ill.mo Sig. Principe d’Isernia di valuta Docati 30… Altro bacile e boccale con l’arme del donatore Marchese del Vasto, di 6 libbre, vale …”
L’illustre Casato, proveniente dalla Castiglia (Spagna), si trasferì nel Napoletano al seguito di re Alfonso I d’Aragona. I suoi membri s i distinsero per valore militare, capacità diplomatica e fedeltà alla Corona, qualità che li portarono a rivestire sempre una posizione preminente nella politica italiana ed europea dell’epoca. Un esempio dello stretto legame che li univa alla Corona fu l’affidamento della carica di Gran Camerario o Camerlengo (Presidente della Camera della Sommaria), carica che fu detenuta ininterrottamente per due secoli dalla famiglia nonostante il succedersi sul trono di varie dinastie. S’imparentò con le più illustri famiglie del Regno, tra le quali Acquaviva, d’Aquino, Caracciolo, Carafa, de Cardona, Colonna, Doria, Gesualdo, de Guevara, Piccolomini, di Sangro, Sanseverino, del Tufo, e altre.
Innigo I (†1484), si distinse nella battaglia navale di Ponza del 1435 e nel 1450 sposò Antonella d’Aquino, ultima rappresentante del ramo primogenito, per questo i feudi e i titoli di marchese di Pescara, conte di Loreto, Monteodorisio e Satriano passarono in casa d’Avalos.1° Marchese del Vasto fu Innigo II, (Napoli + 1504) che sposò Laura Sanseverino. Molteplici furono i discendenti che si distinsero per intelligenza e valore militare, ma un particolare cenno merita Ferdinando Francesco detto Ferrante (Napoli, 1489†Milano, 1525), marchese di Pescara, conte di Loreto e Castellano dell’ isola d’Ischia.
Valente combattente, passò alla storia con la battaglia di Pavia nel 1525. Coinvolto nella cd. congiura del Morone, che gli avrebbe fruttato la corona di Napoli se avesse accettato di partecipare ad una lega di stati italiani organizzata contro Carlo V, Ferrante, dopo lunga meditazione, decise d’informare l’imperatore.
La sua figura, in ogni caso, resta negli annali della storia non tanto per il suo indiscusso valore militare, quanto e soprattutto perché strettamente associata alla nobile e celebre poetessa Vittoria Colonna (1490†1547), sua sposa, figlia di Fabrizio e Agnese di Montefeltre.
Questa trascorse ad Ischia la parte centrale della sua vita, grazie all’ospitalità della famiglia d’Avalos, che, in una particolare circostanza d’avversa fortuna dei Colonna, per molti anni concesse loro di vivere nel Castello di Ischia, diventato, per la presenza colta e raffinata di Costanza d’Avalos, duchessa di Francavilla e governatrice dell’isola, uno dei centri culturali della corte aragonese, attorno alla quale ruotarono poeti e letterati come Sannazzaro, Cariteo, Galeazzo di Tarsia, Moncada, Fuscano, Bernardo Tasso, padre del più noto Torquato.
- Proprio in tale circostanza, l’amicizia fra le due famiglie, fu consolidata dalla decisione di concordare il matrimonio tra i propri figli ancora bambini, Vittoria e Francesco Ferrante, col beneplacito di re Federico. Le nozze si celebrarono il 27 dicembre 1509, proprio nella cattedrale del Castello d’Ischia ed il matrimonio, stretto fra due discendenti di tanto illustri casate, fu ovviamente molto fastoso e memorabile per il lusso e la magnificenza del convito.
Donna affascinante e bellissima, Vittoria Colonna è ritenuta una delle più grandi poetesse del ‘500 ed è definita la Petrarca femminile. La sua delicata spiritualità suscitò sentimenti nobilissimi in Michelangelo Buonarroti, che fu tra i suoi ammiratori e amici più devoti, dedicandole versi ispirati e intrattenendo con lei un’assidua corrispondenza.
Ferdinando Francesco fece costruire per sé e per Vittoria un maestoso edificio in Napoli, oggi in ristrutturazione, i cui giardini arrivavano sino al mare. Il palazzo, però, fu abitato per pochi anni dai coniugi per la prematura morte di Ferrante. Vittoria, infatti, preferì lasciare la villa, impregnata di ricordi, per il castello di Ischia.
La “signora dell’isola” cantònelle sue “Rime” l’amore per il marito, definendolo “il suo sole”. Si narra, tra l’altro, che la donna della “Gioconda” di Leonardo da Vinci era una signora sempre in compagnia di Vittoria e di sua zia Costanza d’Avalos, definita la Sibilla d’Ischia per la sua bellezza. Alcuni studiosi vedono ritratta nella Gioconda non la fiorentina Lisa Gherardini ma questa Costanza, figlia di Innico I d’Avalos, conte di Monteodorisio, e dell’ereditiera Antonella d’Aquino.
Nel 1558 la marchesa Maria d’Avalos d’Aragona, in onore del viceré Ferdinando Alvarez de Toledo, organizzò in questo palazzo, una rappresentazione teatrale eseguita da attori tutti napoletani, con la partecipazione di alcuni nobili. Tale rappresentazione con musiche barocche e classiche, note come “recitar cantando” ebbe un enorme successo e si diffuse nel Regno.
Il Marchese Ferrante morì di tisi all’età di 36 anni e le sue spoglie, unitamente a quelle di Vittoria Colonna, sono custodite a Napoli nella Basilica di San Domenico Maggiore.
Alfonso III d’Avalos (Ischia, 1502†Vigevano, 1546), cugino di Ferrante, 2° marchese del Vasto, fu nominato da Carlo V d’Asburgo cavaliere del Teson d’Oro. Sposò donna Maria d’Aragona, illustre mecenate e nipote di Ferdinando I.
Diego d’Avalos, + 1697, 7° Marchese Del Vasto, March. di Pescara e Principe d’Isernia, sposò Francesca Carafa di Roccella, ed è questi, verosimilmente, il Marchese del Vasto cui si allude nella “Platea”.
Un vivo ricordo ha lasciato nella fantasia popolare la tragica figura di Maria d’Avalos (1560†1590), nata da Carlo, conte di Montesarchio, e da Sveva Gesualdo. Nel 1586 sposò il cugino Carlo Gesualdo, principe di Venosa, (nacque da Fabrizio II e Geronima Borromeo sorella di San Carlo) di ben sei anni più giovane di lei. Il principe fu uno dei più illustri madrigalisti di ogni tempo, apprezzato in tutto il mondo, musicista raffinatissimo ed eccezionale precursore della musica moderna “onorato e ossequiato dagli uomini di cultura di mezzo mondo”. Musicisti, letterati e poeti furono frequentatori assidui del Castello di Gesualdo, tra cui l’amico poeta Torquato Tasso, il quale, nel suo soggiorno a palazzo, scrisse “La Gerusalemme conquistata”, inserendovi versi bellissimi per la famiglia ospite.
Il matrimonio dei due giovani non fu felice. Come spesso nelle vicende d’amore, del passato, di oggi e, forse, di sempre, avvenne che, mentre la vita coniugale sembrava scorrere tranquilla, Maria, durante una festa da ballo, conobbe Fabrizio Carafa, duca d’Andria e conte di Ruvo, e se ne innamorò follemente. Carlo non ebbe altra scelta al di là di quella che il rango e la mentalità dell’epoca gli imponevno. Così, nella notte tra martedì 16 e mercoledì 17 ottobre 1590, colti i due amanti in flagrante adulterio, li ammazzò, vendicando l’oltraggio subito. Istruito il processo, all’indomani il caso era già risolto: delitto d’onore. Le circostanze lo giustificavano dal punto di vista della legge e del costume del tempo; dunque, assoluzione per il principe e il processo fu archiviato “per ordine del Viceré”.
Il caso sollevò grande scalpore e sul tragico destino degli amanti i poeti si scatenarono in una gara in versi. Da Roma, l’11 novembre il Tasso scriveva: “Piangi, Napoli mesta, in bruno ammanto / Di beltà, di virtù l’oscuro occaso / E in lutto l’armonia rivolga il canto”. I cantastorie andarono raccontando la vicenda d’amore e morte, che divenne leggenda. A Napoli, nella centralissima Piazza San Domenico, dove sorge il celebre palazzo di Sangro dei Principi di Sansevero, per anni l’urlo agghiacciante della bella e sfortunata Maria ha raggelato il quartiere, fino a quando nel 1889, crollò l’ala del palazzo dove avvenne il delitto e sembrò solo allora restituire un po’ di pace allo spirito errante di Maria. Da quel fatidico giorno, secondo la credenza popolare, nelle notti senza luna, l’ombra evanescente riappare muta, si aggira silenziosa, dolente e il suo incidere spettrale appare riecheggiare i versi ispirati al Tasso dalla sua drammatica vicenda: “Piangete, o Grazie,evoi piangete, o Amori!…/ la bella e irrequieta Maria”.
A Gesualdo, nel convento dei Cappuccini, nella chiesa di S. Maria delle Grazie, si trova l’imponente tela votiva intitolata “Il perdono di Carlo Gesualdo”. In essa si osserva ad un lato l’immagine del principe inginocchiato, con le mani congiunte in atto di preghiera, che, accompagnato dallo zio cardinale S. Carlo Borromeo, chiede, per il duplice assassinio, perdono a Cristo giudicante, affiancato a destra dalla Madonna e, a sinistra, da S. Michele, alla presenza dei Santi, Francesco, Domenico, Caterina e Maddalena. Di fronte al principe vi è la 2° moglie di Carlo, Eleonora d’Este, anch’ella in ginocchio e in atto di preghiera. Al centro è raffigurato il piccolo figlio, con le ali di un angioletto, morto nel 1600 in tenera età. Allargando l’orizzonte, si può ritenere che la tela votiva ravvisi la richiesta di perdono per tutta l’umanità peccatrice, così come il principe musicista nel 1585 scriveva nel suo primo mottetto “Ne reminiscaris, Domine, delicta nostra” (Perdona, Signore, i nostri peccati). (Cfr. Rocco Brancati, Carlo Gesualdo principe di Venosa 1566-1613…, Milano, Ed. XXI Secolo, 1997; Annibale Cogliano, Carlo Gesualdo omicida fra storia e mito. Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006; Annibale Cogliano, Carlo Gesualdo. Il principe, l’amante e la strega. Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2005).
Ad Andria, poi, sia nella Chiesa della SS. Annunziata, sia nella Sagrestia di S. Maria Vetere, vi erano due dipinti ad olio su tela, oggi nella Pinacoteca Provinciale di Bari, raffiguranti il primo “la Maddalena” (libera copia di una delle Maddalene del Savoldo), l’altro, raffigura la Maddalena in piedi, vestita di nero, pallida nel viso, in atteggiamento doloroso, che contempla Gesù morto, disteso su di un letto funebre, mentre un angelo pare che guardi mestamente quel corpo inanimato e pianga.
Si vuole che il volto di questa Maddalena fosse il vero ritratto della buona e pia Duchessa d’Andria, Maria Carafa di Stigliano, madre dei venerabili padri Vincenzo Carafa, generale dei gesuiti, D. Luigi, abate di S. Maria dei Miracoli d’Andria e moglie sventuratissima del Duca Fabrizio, miseramente pugnalato in Napoli con la principessa Maria d’Avalos.
La santa donna, che per opere di carità cristiana era tanto amata dai suoi sudditi, nel 1606, si rese suora domenicana nel chiostro di Santa Maria della Misericordia in Napoli, aggiungendo, per significato di penitenza, al proprio nome di Maria, quello di Maddalena.